Dipendente dell’Aias di Acireale ha dato del «leccac…» al suo superiore e per questo è stata liquidata con lettera di licenziamento «per giusta causa», che lei ha impugnato. La vicenda è arrivata fino ai supremi giudici
«Leccac…», questo l‘insulto rivolto al suo capo da una dipendente in preda alla rabbia dopo aver ricevuto un incarico di lavoro ritenuto da lei inopportuno. Un insulto che le è costato il posto: liquidata in tronco dal datore di lavoro con una lettera di licenziamento per giusta causa, che lei aveva subito impugnato. Ma, dopo il successo in primo grado, le ultime sentenze della giustizia italiana non le danno ragione. Fino alla Cassazione, che sposa le conclusioni già stabilite dalla Corte d’Appello di Catania: il licenziamento è legittimo.
La sentenza
I giudici di secondo grado, infatti, avevano «qualificato di “notevole gravità” la condotta della dipendente – si legge nella sentenza degli Ermellini pubblicata lo scorso 24 luglio – che si era rivolta al suo superiore gerarchico utilizzando un epiteto volgare, in un contesto di dissenso rispetto a una direttiva impartita, ritenendo tale espressione indice di insubordinazione». Con l’aggravante, inoltre, di averlo fatto in presenza di una collega, dimostrando «un atteggiamento di sfida e disprezzo verso l’autorità», spiegano i magistrati.
La lite furiosa
Ma facciamo un passo indietro, alla lite che ha scatenato la vicenda giudiziaria. I fatti risalgono al 2018 e sono avvenuti nella sezione di Acireale dell’Aias – Associazione italiana assistenza spastici. Di fronte alla richiesta del capo di svolgere un compito a lei poco gradito, la dipendente si era prima rifiutata categoricamente e poi, in preda alla rabbia, lo aveva insultato con l’espressione «leccac…». Informato dello scontro, il presidente della onlus pochi giorni dopo le aveva fatto recapitare la lettera di licenziamento «per giusta causa».
Per il Tribunale di Catania: «Licenziamento illegittimo»
In prima istanza il giudice del lavoro, con ordinanza del 28 febbraio 2020, ha accolto il ricorso della dipendente, «ritenendo il licenziamento illegittimo in quanto sproporzionato, dovendosi ricondurre il fatto contestato tra quelli punibili con una sanzione conservativa», condannando l’Aias al reintegro della donna sul posto di lavoro e al pagamento di 12 mensilità. Una pronuncia confermata dal Tribunale di Catania il 15 settembre 2021. Ma a quel punto l’Aias è andata avanti, e con il ricorso in Appello la sentenza impugnata è stata riformata integralmente: «Il fatto contestato ed accertato integra la giusta causa di licenziamento», ai sensi dell’articolo 32 del contratto collettivo nazionale Aias, sia per «litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro», sia per «grave insubordinazione», hanno stabilito i giudici di secondo grado.
Corte di Appello: «Condotta grave»
E la Cassazione dà ragione alla Corte di Appello di Catania che «ha valutato la gravità intrinseca dell’epiteto rivolto a un superiore gerarchico, non come mero “alterco o diverbio” – spiegano gli Ermellini – ma come insubordinazione qualificata dall’ingiuria e dal rifiuto di adempiere a una direttiva. Specie considerato il contesto in cui è stato pronunciato, ossia in presenza di un’altra dipendente, che ne accentua la gravità e la platealità, e la sussistenza di un atteggiamento di sfida e disprezzo verso l’autorità”».
La donna: «Ero in un periodo di insoddisfazione lavorativa»
A nulla sono valse le spiegazioni della dipendente licenziata che, nell’impugnare la sentenza della Corte d’Appello di Catania, aveva precisato che quell’epiteto volgare con il quale si era rivolta al suo capo fosse frutto di un «periodo di insoddisfazione lavorativa» e delle sue condizioni psicologiche. Motivazioni che «non possono in alcun modo giustificare la sua condotta» secondo la Suprema Corte, che conclude: «Il giudice di secondo grado ha, quindi, ritenuto che tale condotta, per la sua natura oggettivamente grave, fosse idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, a prescindere dalla longevità del rapporto o da asserite condizioni personali della lavoratrice».
fonte: CORRIERE.IT
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