Anteprima del convegno “LE FOIBE: Una tragedia del ‘900” Intervista al prof. Cosimo Rodia

Lunedì, 12 febbraio, alle ore 17.30, a San Giorgio Jonico (TA),  ci sarà l’evento molto atteso del convegno su “LE FOIBE: Una tragedia del ‘900”, organizzato da Fratelli d’Italia. Oltre alla senatrice Maria Nocco e agli onorevoli Dario Iaia e Giovanni Maiorano (FdI),  saranno presenti il consigliere regionale Renato Perrini (FdI) e il direttore di Interzona, professor Cosimo Rodia, il quale si è reso disponibile per un’anteprima di approfondimento del tema attraverso un exursus storico. 

di Salvatore Stano

Le Foibe, originarie dal latino “fovea”, sono profonde cavità tipiche delle regioni carsiche. Dopo l’8 settembre 1943, con la dissoluzione dell’esercito italiano, i tedeschi occupano Trieste, Pola e Fiume, mentre nel retroterra istriano il movimento di liberazione jugoslavo prende il controllo. Si diffonde un clima ostile generalizzato nei confronti degli italiani, alimentato da rancori e desideri di vendetta. I partigiani di Tito utilizzano le Foibe per eseguire crudeli esecuzioni.

I condannati, legati l’uno all’altro con filo di ferro, vengono fucilati in superficie e precipitano nelle voragini, alcune delle quali profonde decine o addirittura centinaia di metri. Alcuni cadono ancora vivi, trascinati dal peso dei compagni colpiti a morte. I primi “infoibamenti”, avvenuti nell’autunno del 1943 in Istria e Dalmazia, coinvolgono centinaia di persone. Attraverso fotografie d’epoca, è possibile approfondire questa pagina drammatica della storia del nostro paese. Per saperne di più abbiamo interpellato il professor Cosimo Rodia, direttore di Interzona, e eminente studioso di quel periodo storico.

Schema di una foiba istriana realizzato nel 1946 dal Cnl (Comitato di Liberazione Nazionale)

Direttore, grazie per la disponibilità. Da dove iniziamo?

«Partiamo da una premessa: Trieste, l’Istria e la Dalmazia sono territori divenuti Province romane nel primo secolo a. C. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente e la rinascita del Comuni, già dalla fine del Medioevo le città costiere, al di là dell’Adriatico, diventano parte della gloriosa Repubblica di Venezia.

Nel 1797, per effetto del trattato di Campoformio, tutto il territorio della Serenissima è ceduto da Napoleone all’Impero Austro-Ungarico (ovvero, Istria e Dalmazia)

Si finisce di parlare l’italiano, allora?

«No, no. Trieste, l’Istria e la Dalmazia divenute territorio dell’Impero Austro-Ungarico, tornano territori italiani dopo la fine della Grande Guerra. Grazie al Patto di Londra (1915), e dopo la caduta dell’Impero austriaco, l’Italia ottenne la città di Trieste, l’Istria, ma Fiume e la Dalmazia vennero concesse alla nascente Jugoslavia. Ma non  è finita… Il 12 settembre del 1919, D’Annunzio occupa militarmente Fiume con 2500 ‘legionari’, contro le mire jugoslave. La soluzione all’impasse giunge il 12 novembre, col trattato di Rapallo, tra Italia e Jugoslavia (confermato, pur con piccole variazioni territoriali, anche dal Trattato di Roma del 1924), prevedendo la Dalmazia alla Jugoslavia, l’Istria all’Italia e Fiume, città libera».

Il professor Cosimo Rodia, direttore di Interzona

Una vittoria parziale, allora.

«Per la Dalmazia totale sconfitta. Per Fiume la sconfitta è solo differita. Nel frattempo sui territori tornati italiani si attuò una politica nefasta; nel corso del Ventennio fascista, le terre della Venezia Giulia furono sottoposte ad una forzata e cruenta campagna di fascistizzazione. Si avviò il processo di italianizzazione della toponomastica e dei nomi propri, la chiusura delle scuole bilingue, la proibizione dell’uso delle lingue diverse dall’italiano nell’amministrazione pubblica; infine, vengono soppresse nel 1927 le organizzazioni culturali ricreative slovene-croate. Un clima evidentemente di violenze e di intimidazioni che non poteva non far crescere sentimenti di rivalsa nella popolazione slava».

E questi sentimenti di rivalsa si manifestarono?

«Certamente sì e l’occasione si presentò l’8 settembre del 1943, dopo che l’Italia rende pubblico l’armistizio. In Istria e in Dalmazia, i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti con torture e massacri, perché li consideravano “nemici del Popolo”, buttandoli così nelle Foibe, che sono i tristemente celebri inghiottitoi naturali».

Recentemente la RAI ha fatto un reportage su Norma Cossetto, la giovane italiana d’Istria uccisa dai partigiani titini. Perché è diventata un simbolo dell’intolleranza etnica?

«Norma era una studentessa italiana istriana, di una frazione del comune di Visinado, sequestrata nella notte fra il 4 e il 5 ottobre 1943, stuprata e gettata nuda e ancora viva in una foiba quando aveva appena 23 anni. Il motivo? Era la figlia di un capo Manipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale ed anche Podestà. Lei è diventata l’emblema di questa strage e quindi il simbolo dell’intolleranza etnica».

Norma Cossetto, la giovane italiana d’Istria uccisa dai partigiani titini

Quali obiettivi perseguivano gli jugoslavi?

«È verosimile che Tito volesse eliminare eventuali oppositori al suo potere in Jugoslavia. Dalla cronaca si apprende che furono uccisi anche 39 sacerdoti (come si evince dalla condanna del vescovo di Trieste e Capodistria, Monsignor Antonio Santin); e la violenza durò fino al 1947; ovvero, fino a quando non furono fissati i confini tra l’Italia e la Jugoslavia, nella Conferenza di pace di Parigi».

Cosa si verifica a Parigi nel secondo dopoguerra?

«A Parigi i vincitori del secondo conflitto mondiale (USA, Inghilterra, Francia) avevano deciso di seguire l’idea di ritornare ai confini territoriali del primo dopoguerra (quindi ogni Stato avrebbe avuto i confini corrispondenti a quelli del 1919). Per l’Italia, in verità, questa idea non venne seguita; il 10 febbraio 1947, la nostra Nazione ratificò il Trattato di pace e le città di Fiume e Zara passarono definitivamente sotto la sovranità jugoslava; inoltre, la fascia Costiera, da Monfalcone a Muggia andò sotto l’amministrazione alleata, detta Zona A; l’Istria, detta Zona B, passò sotto l’amministrazione jugoslava; la zona di Gorizia tornò sotto la sovranità italiana. Per Trieste, la soluzione definitiva si dovrà aspettare il 1954, quando la Zona A rientrerà nelle pertinenze del territorio nazionale. Il 10 novembre 1975, con il trattato di Osimo, l’allora nostro ministro degli Affari Esteri, Mariano Rumor, accettava la cessione in via definitiva dei territori italiani, riconoscendo la Zona B definitivamente come zona jugoslavia (L’accordo prevedeva anche un indennizzo agli sfollati dal governo jugoslavo)».

Qualche consuntivo?

«Tra confini ballerini, soprusi e violenze, alla fine si stimano circa 15.000 morti italiani e circa 350.000 esuli, che secondo il programma del governo italiano sarebbero dovuti venire in Italia. Molti degli esuli, invece, prenderanno la strada dell’oltre oceano (Stati Uniti, Australia, Sudamerica…), quindi solo una parte verrà collocata in Italia».

Recupero di prigionieri morti infoibati

Si conoscono alcuni particolari delle violenze?

«Nei territori occupati dal Movimento di liberazione jugoslavo, si diede inizio agli arresti di squadristi e gerarchi fascisti; vennero prelevati segretari, Podestà, Carabinieri, Guardie campestri, esattori delle tasse… figure umane che rappresentavano il vecchio Regime. Inoltre, bersagli delle retate di questo periodo divennero i possedenti italiani, proprietari di terra e di fabbriche; poi, non mancarono di essere perseguitati i dirigenti e impiegati e ben presto il campo della violenza si allargò fino a coinvolgere tutte le figure rappresentative della comunità italiana. L’obiettivo era quello di distruggere la classe dirigente italiana che poteva essere un ostacolo per l’affermazione del nuovo corso politico. A Pisino, al centro dell’Istria, si costituì il comitato Popolare di liberazione e vi fu un Tribunale rivoluzionario che naturalmente non lesinò ad infliggere condanne a morte. Gli ordini venivano dati dall’alto, per ripulire il territorio dai nemici del Popolo. Una testimonianza della ferocia che imperversava, è la deportazione delle unità di Guardia di Finanza che mai avevano partecipato contro i Partigiani e che anzi avevano collaborato con le forze Partigiane nella lotta contro il potere nazista. Questi militari, evidentemente, vennero perseguitati, perché si volevano distruggere le forze armate esistenti sul territorio e che potevano costituire un freno all’obiettivo del potere popolare. A Vines, in località Albona, di fronte alle isole Quarnerine, nella cosiddetta foiba “Dei colombi” (attualmente nella Repubblica croata), vennero recuperate nel 1943, 84 corpi. Imprecisati sono gli uomini invece buttati nel pozzo di Basovizza, nei pressi di Trieste, divenuto anche monumento nazionale, contro questa barbarie. Vi era un clima di selvaggia violenza, in una commistione di rancori etnici, familiari e di interesse; non è un caso che i rivoluzionari distrussero catasti e avviarono linciaggi. È stata una violenza programmata. Fonti croate del tempo confermano come uno dei compiti prioritarie affidati ai ‘poteri popolari’ in Istria, era proprio quello di ripulire il territorio dai “nemici” del Popolo; una formula che bene si prestava a comprendere quale sarebbe stata la fine di coloro i quali non avessero collaborato con il movimento di liberazione».

Il recupero di alcuni corpi dalle foibe (1943)

Ed è continuato così fino al 1947?

«In verità tra il 1945-1947 la violenza si acuisce. Fino all’aprile del 1945 i partigiani jugoslavi erano stati tenuti a freno dai tedeschi. Con il crollo del terzo Reich, gli uomini di Tito si mossero con l’obiettivo di occupare tutti i territori italiani. Nella primavera del 1945, l’esercito jugoslavo occupò l’Istria e puntò verso Trieste, ma le forze anglo-americane, anticiparono Tito (proditoriamente) e conquistarono Trieste l’1 maggio del 1945. Allora, con l’Istria e Fiume in mano titina, iniziò la seconda ondata di persecuzioni contro gli italiani, in tutta la Venezia Giulia e centinaia di militari della Repubblica Sociale Italiana, caduti prigionieri, furono passati per le armi e lo stesso accade a quelli tedeschi; poi, migliaia di uomini civili furono avviati verso i campi di prigionia in particolare nel famigerato campo di Borovnica (lungo la direttrice Trieste-Lubiana), dove in molti morirono per fame, violenze e malattie. La logica era l’eliminazione delle forze armate nemiche esistenti sul territorio; furono paradossalmente anche perseguitati i combattenti delle formazioni partigiane italiane, sotto la guida del CLN, che erano insorti nell’aprile del 1945 contro i Tedeschi, apertamente in concorrenza alla lotta di liberazione dei partigiani jugoslavi».

E dopo aprile del 1945 cosa accadde agli italiani?

«Tra maggio e giugno ’45, migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra, altri furono uccisi e gettati nelle Foibe o deportati nei campi sloveni o croati. Secondo stime solo approssimative si parla di 15.000 morti e di 350.000 sfollati dalle zone occupate da Tito e in cui ognuno lasciò una casa, poderi, affetti e i propri defunti».

Una famiglia di rifugiati slavi a Trieste, nel 1946

Una famiglia di rifugiati slavi a Trieste, nel 1946

Può parlarci delle modalità di uccisione?

«Sulle modalità di uccisione, le testimonianze sono agghiaccianti. Le esecuzioni erano cruente: i condannati venivano legati l’un all’altro con un filo di ferro o ai polsi o alle caviglie, schierati in linea sugli argini di una foiba, quindi si sparava al primo della fila, che cadendo si trascinava nell’abisso tutti gli altri, che sarebbero, poi, morti di stenti, con a fianco i cadaveri degli amici o parenti. Dopo il Trattato di pace, la Jugoslavia ebbe il diritto di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, con l’accordo che sarebbero poi stati indennizzati del governo di Roma».

Recupero di cadaveri provenienti dalle foibe

Recupero di cadaveri provenienti dalle foibe

Ritiene si possa fare oggi una riflessione “pacata” su fatti storici incontrovertibili.

«La tragedia è stata sempre negata e la diaspora minimizzata. Vale come esempio, l’atteggiamento dell’allora Ministro Emilio Sereni, anche Costituente comunista, con la carica di Ministro per l’assistenza post bellica; quando sul suo tavolo finivano i rapporti con le domande di esodo di assistenza provenienti da Pola, Fiume, Istria, Dalmazia, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammatica situazione, minimizzava la portata del problema e rifiutava di ammettere nuovi esodi nei campi profughi di Trieste, con la giustificazione che non c’era più posto. E in una serie di relazioni a De Gasperi (allora, Presidente del Consiglio), sempre lo stesso Ministro parlò di fratellanza italo-slovena e italo-croata e sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e costringere gli istriani italiani a rimanere nelle loro case, affermando che le notizie sulle Foibe erano una “propaganda reazionaria”. Minimizzare il problema fa pendant con la negazione (e di negazione si deve parlare. Può valere come testimonianza di una temperie culturale il fatto che il manuale tra i più studiati nei licei, quello di Rosario Villari, per i tipi di Laterza, non dedichi neanche un rigo alle foibe)».

Quando si è incominciato a parlare senza pregiudizi dei fatti incontrovertibili?

«Dopo la caduta del muro di Berlino, novembre ‘89, e la disgregazione dell’Unione Sovietica, la diga del silenzio iniziò a rompersi. Il 3 novembre del 1991, l’allora Presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga si reca in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato 50 anni. Poi ci fu la fiction televisiva: “Il cuore nel pozzo” con l’interpretazione di Beppe Fiorello, che apre un altro squarcio nel silenzio assordante. Anche Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica, si reca al sacrario di Basovizza, l’11 febbraio ‘93. Sono gesti simbolici di avvicinamento alla verità storica, tanto che il Parlamento italiano partorisce nel 2004, la legge n. 92 del 30 marzo, che istituisce il 10 febbraio il “Giorno del Ricordo”».

3 novembre 1991, il presidente Cossiga inginocchiato alla Foiba di Basovizza. Fu il primo presidente a compiere il gesto.

Dovendo dare un giudizio da storico, alla fine, cosa è stata la tragedia delle foibe e quale finalità ha mosso la mano assassina contro migliaia di italiani spesso inermi?

«Le prime riflessioni sul fenomeno concludevano che fosse stata la vendetta ad aver originato tanta violenza indiscriminata. Ovvero, si vendicavano coloro i quali avevano subito violenza dal regime fascista e quindi una volta sfaldato il Regime, i vessati dal fascismo trovarono la possibilità di una rivalsa. Una siffatta ipotesi accantonerebbe l’idea della programmata intimidazione e annichilimento del dissenso. Dalla fine degli anni Novanta e negli anni Duemila, studi più puntuali sgombrano dal campo intanto le posizioni negazioniste, che erano in nuce proprio ad alcuni comunicati titini, secondo cui da parte del governo jugoslavo “Non furono effettuati né confische di beni, né deportazioni, né arresti, salvo che di persone note come esponenti fascisti di primo piano o criminale di guerra” (Nota jugoslava del 9 giugno 1945). Come pure sgombrano l’idea di un tentato genocidio degli italiani da parte degli jugoslavi. La repressione jugoslava nel 1945, nei confronti dell’intera comunità italiana, si configura, invece, come ferma risposta, volta a far comprendere agli italiani che sarebbero potuti sopravvivere nelle terre passate sotto il controllo jugoslavo, solo se si fossero adattati, senza riserve al nuovo regime, perdendo qualsiasi altra forma di velleità. Quindi, più che una volontà barbarica di sterminio (tipo la Shoah), si è realizzata una strategia ponderata di annichilimento del dissenso. Questa sembra l’interpretazione più convincente dei fatti, che naturalmente bene pongono in evidenza il rapporto esistente tra le violenze della primavera del ‘45 e il più generale processo di presa del potere in Jugoslavia da parte del Movimento rivoluzionario sotto la guida comunista, protagonista di una guerra di Liberazione, che era anche guerra civile, diretta alla eliminazione fisica degli avversari. Sicché, nella Venezia Giulia si sono combinati abilmente obiettivi sia di rivalsa nazionale, sia di affermazioni ideologiche, sia di riscatto sociale. Quella epurazione preventiva, era diretta a eliminare dalla società Giuliana tutti gli oppositori, anche soltanto presunti, al disegno politico di cui i nuovi poteri erano espressione, un progetto che era al tempo stesso nazionale e ideologico, dal momento che consisteva nell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista. Nella Venezia Giulia la violenza di massa costituiva uno degli elementi portanti della rivoluzione vittoriosa, che favorì la vittoria di un Regime di stampo sovietico, capace di convertire in violenza di Stato l’aggressione nazionale e ideologica presente nell’esercito di Tito».

In conclusione, si può fare una considerazione più generale dell’accaduto?

«Confrontando i fatti che ci hanno visti tristemente coinvolti con la Jugoslavia, con le rivoluzioni realizzate in altre parti del globo, si evince che la storia si è ripetuta nelle modalità tipiche delle rivoluzioni violente, sia nella manipolazione dei fatti drammatici e sia nella vessazione delle persone che avrebbero potuto creare un dissenso».

(da sinistra) La senatrice Maria Nocco e gli onorevoli Dario Iaia e Giovanni Maiorano saranno presenti a San Giorgio Jonico il 12 febbraio

Alcuni rappresentanti del circolo Fratelli d’Italia di San Giorgio Jonico, organizzatori dell’evento

Il Consigliere regionale di FdI, Renato Perrini

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