Aspirina come farmaco anti-trombosi, Carlo Patrono: «L’idea che mi ha reso felice»

Lo scienziato italiano Carlo Patrono

 

di Graziella Melina

Se in tutto il mondo milioni di persone a rischio di malattie cardiovascolari possono contare su una terapia salvavita, lo si deve alle ricerche di uno scienziato italiano. Carlo Patrono, laureato in Medicina e Chirurgia all’Università Cattolica di Roma, coautore di circa 250 articoli scientifici con oltre 70mila citazioni, ha infatti scoperto che l’aspirina a basso dosaggio è «in grado di esercitare un effetto selettivo sulla biochimica piastrinica alla base di un’efficace terapia antitrombotica. È stata un’intuizione ispirata dai giganti sulle cui spalle sono salito – racconta Patrono – succede sempre così nelle scoperte in medicina». Per questi suoi studi, nel 2013 ha ricevuto il Grand Prix Scientifique Lefoulon-Delalande dall’Institut de France.

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Professore, come le è venuta l’intuizione di utilizzare l’aspirina a basso dosaggio come salvavita?
«Avevo 30 anni quando Bengt Samuelsson, premio Nobel nel 1982, comunica la sua scoperta del trombossano piastrinico, un potente pro-aggregante. E così la mia strategia di giovane farmacologo clinico si sviluppa lungo due idee maturate attraverso due incontri fondamentali: quello con Solomon Berson e Rosalyn Yalow, premio Nobel nel 1977, con i quali ho lavorato per circa due anni a New York e dai quali ho appreso tra l’altro la metodologia del dosaggio radioimmunologico, basato cioè su radioattività e anticorpi. Altro incontro importantissimo è stato quello con il farmacologo Gustav Born, incontrato nel corridoio del mio Istituto alla Cattolica mentre cercava un telefono. Mi ha parlato di piastrine e dell’aggregometro, uno strumento da lui sviluppato a Londra per misurare, appunto, l’aggregazione piastrinica».

Il passo successivo quale è stato?
«Insieme con un gruppo di giovanissimi collaboratori, reclutiamo una trentina di studenti e infermiere della Cattolica, ai quali facciamo un prelievo di sangue e urine prima di somministrare dosi crescenti di aspirina, da 10 a 100 mg, per poi ripetere i prelievi 24 ore dopo. I risultati di questo studio, pubblicato nel 1982 sul Journal of Clinical Investigation, il massimo delle nostre aspirazioni, dimostrano che una singola dose di 100 mg di aspirina è in grado di bloccare completamente la sintesi piastrinica di trombossano. Inoltre, dimostriamo che la somministrazione giornaliera ripetuta di 30 milligrammi, un centesimo della dose anti-infiammatoria, è in grado di produrre lo stesso effetto».

A quali categorie di pazienti pensava potesse essere utile?
«Studi successivi del nostro gruppo e di quello di Garret FitzGerald, della Vanderbilt University, si sono focalizzati sulle sindromi coronariche acute, angina instabile e infarto miocardico acuto e sull’ictus ischemico acuto. Lo studio fondamentale in campo cardiologico è l’International Study of Infarct Survival-2, pubblicato nel 1988, che ha dimostrato l’efficacia dell’aspirina a basse dosi nel ridurre la mortalità vascolare durante le prime settimane dopo un infarto acuto del miocardio».

Il fatto che grazie ai suoi studi venga usata ormai da milioni di persone è un grande motivo di orgoglio…
«Certamente, anche se l’orgoglio personale è accompagnato dalla consapevolezza che questi risultati, che sono comunque impressionanti per un farmaco che nel 1988 era alle soglie dei 90 anni, sono il frutto di una vasta collaborazione internazionale indipendente da logiche industriali e di studi clinici finanziati con fondi pubblici».

Ritiene che l’aspirina possa essere utile anche per il trattamento dei primi sintomi del Covid?
«Analogamente ad altri farmaci anti-infiammatori non steroidei, l’aspirina ad alte dosi può attenuare i primi sintomi del Covid. Il quesito più interessante è però se a basse dosi possa ridurre le complicanze trombotiche della malattia, riducendo la mortalità nei pazienti ricoverati. È un quesito al quale darà presto una risposta il Recovery trial, coordinato dall’Università di Oxford».

Ci sono altre potenzialità legate a questo medicinale?
«Negli ultimi 10-15 anni, l’attenzione di molti ricercatori, compreso il nostro gruppo, si è spostata sull’apparente effetto chemio-preventivo dell’aspirina nei confronti di alcuni tumori, in particolare quelli dell’apparato gastrointestinale, ossia esofago, stomaco e colon-retto. Stiamo portando avanti, inoltre, una vasta collaborazione dei principali Centri Ematologici del nostro Paese, coordinata dalla Fondazione Policlinico Gemelli, per riuscire a personalizzare il regime posologico di aspirina più adatto a pazienti affetti da una neoplasia mieloproliferativa, la trombocitemia essenziale».

Secondo lei oggi su cosa bisognerebbe puntare per invogliare i giovani ricercatori a restare in Italia?
«La cosa fondamentale è prendere atto che l’ambito di lavoro per i nostri giovani ricercatori è, e sarà sempre più, un ambito europeo e che, per essere competitivi nell’attrarre e far restare i migliori ricercatori bisogna offrire quello che offrono i nostri partner europei, ossia sentieri di carriera meritocratici, stipendi adeguati, fondi di ricerca competitivi assegnati sulla base del merito scientifico delle proposte. Su ognuno di questi parametri, il nostro Paese è decisamente indietro. Portare gradualmente l’investimento in ricerca al 2% del Pil dovrebbe essere un obiettivo prioritario di qualunque governo. Mi auguro sinceramente che il piano Next Generation Eu della Commissione Europea aiuti il nostro Paese ad andare in questa direzione».

 

fonte: Il Messaggero

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