Covid, farmaci e nuove cure: così batteremo il virus. «Diventerà come un raffreddore»

Didascalia foto Reparto di terapia intensiva al Covid Hospital presso la Fiera del Levante a Bari (Imgoeconomica)

Gli epidemiologi americani: «Ci vorranno 3-5 anni». L’importanza delle terapie a domicilio e le tempistiche migliori per la seconda dose

di Giuseppe Remuzzi Direttore Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs

«The best vaccine is the one you can get». È il titolo del Washington Post di qualche settimana fa, lo trovo bellissimo perché in una riga dice:

1) quanto sia importante vaccinarsi;
2) ridimensiona le ansie di chi vorrebbe un vaccino piuttosto che un altro;
3) dà un’idea di quanto sia importante vaccinare tutta la popolazione il più in fretta possibile.

Ma nessun vaccino sarà mai efficace al 100%, sicuro al 100% e disponibile per il 100% degli abitanti del pianeta: dovremmo vaccinare sette miliardi di persone, sarà difficilissimo raggiungerli e molti il vaccino non lo vorranno fare. Così la fine della pandemia — ammesso di arrivarci — sarà fatta di tante misure che si dovranno prendere insieme, il vaccino è certamente la pietra d’angolo, ma nessuna casa sta in piedi con quella soltanto, ci vuole tutto il resto a cominciare dall’ormai famoso «lavarsi le mani, distanziamento e mascherina». Pensate, queste misure da sole, se adottate dal 95% della popolazione, sarebbero altrettanto efficaci quanto il vaccino.

Curarsi a casa è davvero possibile?

Sì, almeno un po’, qualche medico ci ha pensato sin dall’inizio, altri ci stanno arrivando adesso, è sempre più chiaro che la cura contro il Covid-19 comincia a casa, fin dai primi sintomi, quando il virus si sta già replicando nel nostro organismo senza che noi ce ne accorgiamo. I primi dieci giorni sono cruciali per fermare il virus, prima che raggiunga le cellule del sangue per poi diffondersi dappertutto, quei dieci giorni non li dobbiamo perdere. E di tutte le cose che si possono fare a casa, la prima e la più importante è incontrare il proprio medico. «How are you in yourself?», chiedeva sempre Stuart Cameron — grande nefrologo e grandissimo medico — ai suoi pazienti. Sarebbe «Come ti senti dentro te stesso?»: a un medico bravo basta questo per capire come vanno le cose. Poi certo, ci sono anche i farmaci, anche se sulle cure a casa gli studi controllati (quelli che hanno valore scientifico) sono davvero pochini; ecco perché è sbagliato criticare le indicazioni del Ministero e dell’Aifa nella gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2, senza studi impeccabili e pubblicati, le istituzioni non possono fare di più.

Gli studi

Adesso però qualche studio si comincia a intravedere. Il più importante è appena stato pubblicato sul Lancet da ricercatori di Oxford: due «puff» al giorno di un preparato usato comunemente per l’asma — contiene Budesonide, un cortisonico — se utilizzati entro sette giorni dall’inizio dei sintomi, riducono dell’80% la necessità di ricorrere all’ospedale. Sulla stessa linea un altro studio che sarà pubblicato presto, dimostra come antinfiammatori molto comuni, e questa volta diversi dal cortisone, se presi fin dai primi sintomi, prima ancora di sapere se il tampone sarà positivo o no, riducono del 90% la necessità di ricorrere all’ospedale. Quest’ultimo studio non è perfetto perché retrospettivo, ma i due insieme suggeriscono quantomeno che questa è una strada su cui dovremmo investire di più. E poi c’è un piccolo studio di cui nessuno parla, è basato sull’impiego di uno sciroppo della tosse che contiene Bromexina, questa inibisce l’enzima (Tmprss2) che consente alla proteina «spike» (che ormai siamo stati abituati a conoscere) di legarsi al suo recettore. È uno studio fatto su 78 pazienti soltanto, pubblicato su un giornale che non ho mai sentito (Bioimpacts), ma i risultati sono interessanti: chi prende da subito lo sciroppo per la tosse, non va in ospedale quasi mai e non muore. Uno studio solo non basta, ci vogliono conferme, se ne stanno facendo altri in giro per il mondo, vedremo.

I farmaci

È interessante anche l’Ivermectina, un antiparassitario che di solito si impiega negli animali. C’è però una formulazione galenica che è stata usata nell’uomo, i risultati non sono un granché ma c’era qualche problema di dosaggio; aspettiamo una parola definitiva da uno studio in corso all’ospedale di Negrar fatto con la dose giusta. E ci sono altre buone idee, ve ne dico una: il metotrexato, un farmaco anticancro che potrebbe uccidere il virus come fa con le cellule tumorali; ci sono già protocolli, autorizzazioni, voglia di studiarlo questo farmaco, ma costa poco o niente, come tutto quello di cui vi ho parlato finora, non sono cose per la grande industria. Servirebbe un investimento pubblico o qualche persona generosa che abbia voglia di aiutare quei medici, che hanno già tutto pronto per avviare questi studi.

E gli anticorpi monoclonali?

Vanno fatti molto presto anche loro, in pazienti con malattia lieve o moderata e li raccomandano sia l’Nih che l’Aifa. Si tratta di combinazioni di anticorpi dai nomi impronunciabili, e allora diciamo che due di questi anticorpi sono di Eli Lilly e due di Regeneron e che servono proprio per non perdere i famosi dieci giorni. Farli a casa sarebbe bello, ma in pratica non si può, vanno dati in flebo e durante l’infusione possono esserci disturbi, anche importanti per quanto abbastanza rari. Allora servono presidi dedicati, perlomeno fin quando non si potranno somministrare intramuscolo. Così, per adesso, si è scelto di farli solo a pazienti con forme iniziali di malattia ma fragili e che rischiano di progredire verso forme più gravi. La fondazione Toscana Life Sciences con Rino Rappuoli sta dando un contributo importante a queste ricerche: hanno messo a punto un anticorpo apparentemente molto potente ed efficace anche contro le varianti (perlomeno in laboratorio) e non è nemmeno escluso che possa funzionare anche nelle fasi avanzate della malattia. Adesso si tratta di aspettare i risultati degli studi sui volontari. Per i monoclonali comunque c’è e ci sarà sempre il problema del prezzo: costano tanto, forse troppo.

Vaccini, sì o no? E ancora: quali, quando, e perché?

Quando il virus è arrivato in Europa e poi negli Stati Uniti nessuno aveva previsto che avremmo avuto vaccini efficaci in così poco tempo. I più ottimisti parlavano di due anni o tre o anche di più. Ne abbiamo ben quattro già approvati e tutto in meno di un anno. Questo è stato possibile grazie a una collaborazione senza precedenti tra accademia e industria, a investimenti pubblici mai visti prima e ad autorizzazioni Fda e Ema ottenute a tempo record. Ci saremmo aspettati di avere dei vaccini come quello antiinfluenzale, che qualche volta protegge dall’influenza e qualche volta no (anche se chi si è vaccinato, se si ammala, ha sempre una forma lieve). Per Covid-19 abbiamo avuto molto di più: vaccini efficacissimi, quelli approvati, che proteggono tutti dalla malattia severa al 100 percento. E la cosa più sorprendente è che ritardare la seconda dose riduce la mortalità e migliora la risposta immune. Per AstraZeneca lo si era capito subito. Per Pfizer e Moderna gli studi di fase tre avevano stabilito che la seconda dose dovesse essere dopo 21 e 28 giorni. Anche se molti vaccinologi — uno su tutti Stanley Plotkin — in una memorabile intervista, suggeriva di aspettare comunque dodici settimane, per il richiamo, con qualunque vaccino, almeno finché non fossero state vaccinate tutte le categorie a rischio. Poi si sarebbe pensato alla seconda dose.

I dati

Adesso abbiamo i dati di chi è stato vaccinato con una dose sola in Inghilterra, in Scozia e da poco anche in Canada: si raggiunge il doppio della popolazione e in condizioni di carenza di vaccini già la prima dose riduce malattia grave e ricoveri in ospedale. Ma non basta, un lavoro pubblicato sul British Medical Journal solo cinque giorni fa dà altre due informazioni interessanti: in certe condizioni ritardare la seconda dose previene la mortalità e limita lo sviluppo di varianti (più tempo passa prima di aver vaccinato tutta la popolazione più il virus ha tempo per mutare). E Lancet di questi giorni pubblica un’analisi ancora più approfondita: si tratta di quattro studi controllati messi insieme che dimostrano come rimandare la seconda dose migliori la risposta immune. Lo studio viene dall’Università di Birmingham, non è ancora pubblicato ma i più attenti l’hanno potuto vedere come «pre-print». È stato concepito per studiare la risposta immune in persone con più di 80 anni che hanno ricevuto la seconda dose di Pfizer dopo tre o addirittura dopo dodici settimane. Sorpresa: il picco di risposta anticorpale è 3,5 volte più alto in chi ha ritardato la seconda dose, rispetto a chi ha seguito le raccomandazioni del fabbricante (che per definizione non possono essere diverse da quelle contenute nei dossier depositati presso le agenzie regolatorie).

Potremo tornare a una vita completamente normale? E quando?

Il governo americano lo ha chiesto a 723 epidemiologi, proprio in questi giorni. La maggior parte di loro ha risposto: «Dovremo certamente prestare attenzione ancora per molto tempo, avremo un’estate migliore, al rientro apriremo le scuole e potremo invitare gente a casa per le vacanze di Natale, ma il virus continuerà a circolare, anche se presto o tardi finirà per diventare uno dei tanti coronavirus, come quelli del raffreddore». E quando sarà?. Qualcuno ha risposto tre anni, per altri ce ne vorranno cinque. Ammesso che la campagna vaccinale continui così e che si riesca, anche da noi, ad aver vaccinato tutti o quasi tutti i settantenni e i sessantenni. Questa è certamente la cosa da fare e da fare il più rapidamente possibile. Poi vanno vaccinati i cinquantenni e per essere tranquilli dovremmo vaccinare presto anche quelli fra i 40 e i 49 anni. Agli altri penseremo dopo. Ma se vogliamo liberarci da SARS-CoV-2 l’obiettivo (ambiziosissimo, lo so) è di vaccinare il mondo. E c’è un altro problema: il virus lo fermeremo solo se i vaccini potranno prevenire non solo la malattia ma anche la sua trasmissione. Fino a qualche settimana fa nessuno credeva fosse possibile e invece siamo sulla buona strada. Un lavoro fatto a Cambridge e pubblicato da poco su eLife, un buon giornale, dimostra che Pfizer — ma potrebbe applicarsi anche ad altri vaccini — oltre a prevenire la malattia riduce anche la trasmissione del virus.

Arriveremo all’immunità di gregge? E quando?

Questo proprio non lo so, potremmo anche non arrivarci mai. L’esempio di Manaus la dice lunga. Quando a giugno 2020 si era infettato il 60% della popolazione, si pensava di essere vicini a quella che io preferirei chiamare «immunità di comunità», ma ecco che arriva una nuova variante — l’hanno chiamata P.1 — che si diffonde così rapidamente, che a gennaio 2021 tutti quelli che erano positivi al tampone erano portatori di questa variante e così l’immunità che chiamano «di gregge» svanisce; senza contare che anche quando la si dovesse raggiungere non sai per quanto resta.

Un bel giorno lo sapremo, ma teniamo presente due cose.

Uno: «Se qualcuno ha delle certezze su questa pandemia, non credeteci».
Due: c’è da fare i conti con l’intelligence della pandemia (qui l’inglese ci vuole, perché è molto di più di quello che noi chiamiamo «intelligenza»), ce lo ha insegnato Donato Greco — uno dei più grandi epidemiologi italiani — con un bellissimo articolo su Scienza in Rete. Quell’intelligence è fatta di conoscenze, incertezze, rischio e assunzione di responsabilità. Bisogna saper raccogliere i dati, certo, ma è ancora più importante saperli interpretare.
Poi serve la sorveglianza, lavorare sul campo, l’esperienza delle epidemie precedenti. Sars-CoV-2 non è poi così nuovo, somiglia al virus della Sars per esempio e a tanti altri coronavirus, ma la malattia «Covid-19» è qualcosa che non abbiamo mai visto, risparmia quasi sempre i giovani e colpisce soprattutto gli anziani e i più deboli, i più malati, chi vive in condizioni igieniche precarie, le minoranze etniche e poi chi non ha da mangiare e nemmeno da bere. Come in certe parti dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. E questo ci ha confuso, non eravamo pronti.

 

fonte: Corriere.it

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