Italia fanalino di coda nei costi energetici: la Cina li riduce drasticamente, ma a che costo ecologico?

di Redazione

L’Italia ha abbandonato la cosiddetta Via della Seta, la rete di accordi che collega la Cina a numerosi Paesi. Questo periodo non è facile per la seconda economia mondiale. Nella stessa settimana, l’agenzia di rating Moody’s ha annunciato la possibilità di declassare il debito pubblico cinese, soprattutto a causa del crollo del settore immobiliare che sta incidendo sulle entrate fiscali del Paese. Nel frattempo, sebbene se ne parli poco, la Cina dovrebbe assumere un ruolo centrale nella diplomazia climatica che in queste ore sta lavorando intensamente per chiudere la Cop28 di Abu Dhabi, con l’obiettivo di ottenere impegni credibili dai principali attori per contrastare il surriscaldamento del pianeta. Purtroppo, questi tre fattori sono interconnessi: il deterioramento delle relazioni tra la Cina e i Paesi avanzati, la marcata stagnazione sotto la leadership di Xi Jinping e i ritardi nel ridurre le emissioni di gas serra sono tutti elementi collegati da un filo rosso. La crescente tensione della seconda guerra fredda e la crisi economica ormai evidente in Cina non fanno che aggravare la crisi climatica.

Il commercio cinese in esame

Per una comprensione approfondita, osservate i grafici qui sopra, elaborati da QuantCube. QuantCube, una start-up parigina composta da matematici, fisici, statistici ed economisti che agiscono come investigatori per anticipare gli sviluppi delle principali economie mondiali e interpretare i dati provenienti dai sistemi autoritari che non forniscono informazioni trasparenti. In questo contesto, hanno impiegato il “sistema di identificazione automatica” (o transponder) dei cargo per analizzare l’andamento effettivo del commercio cinese. Il risultato è eloquente: il commercio cinese sta registrando una crescita con i cosiddetti “non occidentali” e, al contempo, una decrescita con i Paesi occidentali. In altre parole, probabilmente anche per scelte politiche, la Repubblica Popolare sta accelerando il suo processo di integrazione economica con ciò che attualmente viene definito il “Sud del mondo”, mentre contemporaneamente allenta i legami con l’Occidente.

I legami con i Paesi emergenti

Nel grafico, la linea celeste rappresenta l’andamento dell’export cinese nei prodotti da container e nelle materie prime grezze (“dry bulk”) con un gruppo di nove economie avanzate, tra cui Stati Uniti, Francia, Germania e Italia, che costituivano il 30% del commercio mondiale della superpotenza asiatica nel 2021. Come evidente, negli ultimi due anni gli scambi effettivi sono diminuiti (tendenza riscontrabile anche nell’export proveniente da queste economie verso la Cina). D’altra parte, nella linea rossa, si osserva un gruppo di sedici Paesi emergenti, tra cui Russia, Brasile, India, Indonesia, Vietnam e Arabia Saudita, rappresentante il 22% del commercio mondiale cinese. Con questi paesi, gli scambi di Pechino sono notevolmente aumentati in entrambe le direzioni. In altre parole, presto Xi Jinping potrebbe dipendere maggiormente per la crescita del suo sistema dai rapporti con paesi come il Sudafrica, gli Emirati Arabi Uniti o la Russia, piuttosto che da Italia o Francia. Si tratta di una sottile inversione delle leggi della globalizzazione stabilitesi almeno dal 2001, quando Pechino è entrato nell’Organizzazione mondiale del Commercio.

L’esportazione in Europa

Il secondo grafico fornito da QuantCube qui sopra offre una chiave di lettura cruciale: la responsabilità sembra essere nostra, se possiamo esprimerlo in modo forse un po’ brusco. Il commercio bilaterale cinese con l’Europa (linea rossa) sta attraversando un periodo difficile, mentre quello con gli Stati Uniti (linea azzurra), nonostante le tensioni politiche, mantiene una dinamica leggermente migliore. Qui si potrebbe discutere sulla competitività forse imparagonabile e sulla possibile slealtà dei produttori cinesi di batterie, pannelli fotovoltaici o addirittura auto elettriche. Tuttavia, resta un dato di fatto: Xi Jinping non riesce a trovare la crescita di cui ha così disperatamente bisogno vendendo i prodotti della sua superpotenza industriale a noi europei; la trova piuttosto in Paesi come l’India o l’Indonesia. Tuttavia, in quei Paesi le produzioni sono già a basso costo, se non inferiori a quelle cinesi, e il reddito medio dei consumatori è basso. Esportare grazie ai prezzi minimi del “made in China” è molto più difficile in quei Paesi rispetto all’Europa. I prodotti indiani in India o indonesiani in Indonesia si basano su salari ancora più bassi rispetto alla concorrenza cinese. Questa differenza fondamentale, rispetto agli equilibri degli ultimi venti anni, rischia di avere profonde implicazioni per l’ambiente e per il surriscaldamento globale.

Economia e Occupazione in Cina

Xi Jinping e l’intero sistema a partito unico hanno un bisogno impellente di rafforzare questa fonte di crescita attraverso la vendita di beni e servizi nel Sud del mondo, specialmente considerando

che il commercio con noi europei stenta a decollare. Il terzo grafico di QuantCube svela quanto sia cruciale questa necessità per Pechino: l’economia nel complesso e l’occupazione in particolare appaiono troppo fragili in Cina. Una situazione che non può che preoccupare un sistema rigido e autoritario. Xi Jinping ha sospeso la pubblicazione dei dati sulla disoccupazione giovanile, ma gli analisti di QuantCube riescono comunque a comprendere la situazione attraverso le offerte di lavoro pubblicate online. Nel settore immobiliare, direttamente o meno, responsabile del 40% del prodotto interno lordo del Paese, le aziende cinesi cercano il 60% di nuovi addetti in meno rispetto a un anno fa. In tutti gli altri settori, tranne l’energia, si registrano livelli inferiori rispetto a novembre 2022. Se sedeste nel Politburo del Partito Comunista Cinese, avreste tutte le ragioni di essere preoccupati. In larga parte, la responsabilità sarebbe vostra, poiché la sicurezza ossessiva, l’interventismo soffocante e l’incapacità del regime nel gestire l’esplosione della bolla immobiliare stanno minando la seconda economia più grande del pianeta. Tuttavia, come leader del partito, cerchereste di capire come mantenere bassi i costi dei prodotti di esportazione “made in China”, per continuare a conquistare i mercati del Sud del mondo che sono così sensibili al prezzo. E questo è esattamente ciò che sta accadendo.

Il costo dell’energia nei diversi Paesi

Un metodo attraverso il quale i cinesi contengono i costi è mantenendo estremamente bassa la spesa energetica nelle loro fabbriche. Il grafico qui sopra è stato elaborato da Enrico Mariutti, un analista indipendente italiano nel settore energetico, seguito attentamente anche da alcuni dei principali osservatori internazionali. Mariutti ha analizzato i costi dell’elettricità nell’industria di vari Paesi (in centesimi di dollaro per chilowattora). Come si può notare, l’Italia perde nettamente nella competizione. I nostri costi sono un terzo più alti della Germania, più del doppio rispetto alla Francia e addirittura tre volte superiori a quelli della Spagna. Al contrario, il Qatar, l’Iraq, la Russia e l’Islanda hanno successo, producendo autonomamente l’energia primaria per le proprie centrali (geotermica per l’Islanda, da gas naturale per le altre). La Cina segue subito dopo. Il segreto è semplice: circa il 60% dell’approvvigionamento energetico nella Repubblica Popolare proviene ancora da centrali a carbone, la fonte fossile più inquinante e dannosa per il clima. Mariutti spiega che molti grandi gruppi cinesi riescono persino a ridurre il costo dell’elettricità in fabbrica a quattro centesimi per chilowattora, il livello più basso al mondo e quindici volte inferiore a quello italiano, costruendo centrali a carbone interne ai loro stessi impianti.

Le centrali a carbone in Cina

Potrebbe sembrare che le autorità di Pechino abbiano l’intenzione di ridurre o almeno stabilizzare la loro dipendenza dal carbone. Infatti, nel settembre del 2021, il presidente Xi Jinping aveva annunciato che la Cina non avrebbe più finanziato la costruzione di centrali a carbone all’estero. Tuttavia, all’interno dei confini della Repubblica Popolare, la situazione è diversa. Come spiegato da Michael Davidson su Foreign Affairs il 2 novembre scorso, “i governi provinciali cinesi hanno autorizzato la costruzione di più capacità di produzione elettrica in centrali a carbone negli ultimi dodici mesi di quanto abbiano fatto negli ultimi sei anni”. Davidson aggiunge che se questi impianti verranno costruiti e gestiti come consueto, la Cina supererà di colpo tutti gli ostacoli dei suoi impegni contro il cambiamento climatico, rendendo inattuabili gli obiettivi internazionali di limitazione del surriscaldamento globale. Una delle ragioni di ciò è che il governo cinese ha dichiarato che l’uso del carbone inizierà a diminuire dopo il 2025, ma senza specificare da quale livello, quindi molte imprese e autorità provinciali cercano di aumentare il più possibile la capacità di produzione elettrica prima della data limite. Come evidenziato anche dai grafici, il consumo e la produzione di energia pro capite in Cina superano ormai quelli dell’Italia o dell’Europa, ma con una popolazione di 1,4 miliardi di persone.

Un modello di crescita sostenibile

Il risultato è evidente nel grafico sopra riportato. L’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra entro il 2050 per contenere l’aumento medio delle temperature entro l’1,5% gradi Celsius sembra ormai completamente irraggiungibile. Il mondo continuerà a riscaldarsi ben oltre le speranze originarie e ben oltre quanto dichiarato ufficialmente in innumerevoli vertici sul clima. La principale spiegazione di questo scenario si trova in Cina, l’economia che continua ad aumentare in modo più significativo e su scala più ampia l’immissione di carbonio nell’atmosfera. Questo non è solo una fatalità, né una traiettoria inevitabile di un Paese emergente. È il risultato di una serie di fattori, ma alla base di tutti c’è l’incapacità di Xi Jinping – chiuso nel suo iper-nazionalismo aggressivo – di concepire un modello di crescita più sostenibile in un sistema globale dominato da fratture e grandi rivalità strategiche. Qualcosa mi dice che è meglio non tenere il fiato sospeso per i risultati della Cop28 di Abu Dhabi.

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