Le ultime volte che l’Italia finì in mezzo a storie di spionaggio

La vecchia sede del KGB in piazza Lubjanka, a Mosca, oggi sede dei servizi segreti russi, fotografata nel 2015 (AP Photo/Pavel Golovkin)

Negli ultimi anni della Guerra fredda ci furono episodi che ricordano quello emerso ieri, raccontati in un libro da un ex capo del SISMI

La notizia degli arresti per spionaggio di un ufficiale della Marina italiana e di un ufficiale militare russo ha portato l’attenzione su una vicenda di cui si sa ancora poco, e che ha ricordato atmosfere e situazioni che in Italia non arrivavano sui giornali da molto tempo. Qualcuno ha sottolineato come l’ultima operazione di controspionaggio simile, in cui furono coinvolti il KGB (i servizi segreti dell’Unione Sovietica), i servizi segreti bulgari e quelli militari italiani, che allora si chiamavano SISMI, risalisse al 1989. In realtà tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta furono diverse le vicende di controspionaggio su cui si concentrarono i servizi segreti militari.

L’ammiraglio Fulvio Martini ne raccontò qualcuna anni dopo in Nome in codice: Ulisse, il suo libro di memorie uscito nel 1999 per Rizzoli, e anche nei casi raccontati dal libro furono coinvolti principalmente agenti segreti russi.

L’Ammiraglio di Squadra Fulvio Martini (1923 – 2003), nome in codice “Ulisse”

Martini fu ammiraglio della Marina militare e capo del SISMI tra il 1984 e il 1991, dopo aver fatto una lunga carriera in vari reparti dei servizi di informazione. Morì nel 2003. Durante il periodo in cui fu direttore del SISMI, nella Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica cominciavano a vedersi segnali di distensione, soprattutto verso la fine degli anni Ottanta. L’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan stava cominciando a smussare i toni aspramente anticomunisti usati all’inizio del decennio, e tra lui e il leader sovietico Michail Gorbaciov si erano instaurati buoni rapporti diplomatici.

Ma anche se ai piani alti c’era meno tensione, certi aspetti dei rapporti tra stati rimanevano delicati anche in quegli anni, specie quelli informali e portati avanti in clandestinità. Più di quarant’anni di Guerra fredda avevano portato i paesi dei due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, a sviluppare una cospicua rete di spie e un costante sentimento di diffidenza, che per certi versi si riflette ancora nel mondo contemporaneo: non è un caso se persistono rapporti complicati tra la Russia e certi paesi europei, in particolare Francia e Regno Unito.

Martini nel suo libro racconta tre storie di controspionaggio di cui fu protagonista, senza mai fare nomi delle persone coinvolte. La prima iniziò nel 1985 a seguito di una segnalazione da parte del ministero degli Esteri indiano, che aveva notato comportamenti sospetti di un cittadino italiano a New Delhi: frequentava spesso l’ambasciata sovietica ed era in stretti rapporti con un noto agente del KGB, oltre a dare mostra di ingenti e sospette disponibilità economiche. Un ulteriore elemento che fece insospettire era la sua tendenza a frequentare solo italiani esperti di elettronica, ma «non avendo nulla a suo carico, ci limitammo a una blanda sorveglianza», scrive Martini.

Sorvegliandolo nell’arco di un paio d’anni, si scoprì che era dipendente di una società di componentistica elettronica, e che faceva molti viaggi all’estero. Nel 1988 i sospetti degli agenti del SISMI trovarono conferma quando si scoprì che l’uomo era riuscito a stringere amicizia con alcuni impiegati di ditte che stavano eseguendo lavori per il ministero della Difesa italiano. Martini si convinse che fosse stato reclutato dal KGB e che stesse cercando di reclutare a sua volta altre persone usando come leva la possibilità di guadagnarci molti soldi. Le spie erano pagate bene dai sovietici.

Il sospettato stava tentando di convincere soprattutto un ingegnere elettronico che lavorava a un sofisticato sistema di comunicazioni per sorvegliare le attività nemiche, destinato a essere integrato in un più ampio sistema della NATO. L’ingegnere fu avvertito dagli agenti di Martini e accettò di fare il doppiogioco. Iniziò quindi a passare alcuni documenti ai russi tramite il sospettato, documenti che però erano stati preventivamente manipolati e contenevano informazioni fuorvianti («bocconcini avvelenati», come li chiamava Martini).

L’operazione alla fine si concluse nel 1989, quando al sospettato furono consegnati alcuni documenti che lui credeva essere molto importanti. Fu fermato dopo un lungo pedinamento e arrestato a Trieste, mentre si incontrava con un agente sovietico.

Le altre due storie si svolsero tra il 1988 e il 1990. La prima ebbe come protagonisti un ex carabiniere disertore fuggito in Bulgaria e ricercato dalle autorità (Paolo Dinucci), un commerciante di pellami toscano (Natalino Francalanci) e un ingegnere elettronico della Oto Melara, ancora oggi importante società che collabora con la Difesa italiana. Il commerciante di pellami, Francalanci, faceva continui viaggi in Bulgaria, dove si incontrava con il disertore, che collaborava con i servizi segreti locali. Il disertore era riuscito a ottenere la collaborazione di Francalanci ventilando l’ipotesi di condizioni economiche vantaggiose per un’eventuale vendita di pellami in Bulgaria.

Stampa Sera, 20 febbraio 1989

Francalanci mise a disposizione le sue conoscenze personali nella sede di La Spezia della Oto Melara, le cui attività suscitavano un notevole interesse nell’intelligence bulgara. Fu agganciato un ingegnere della ditta, e anche questa volta intervenne il SISMI: gli agenti italiani convinsero l’uomo a fare il doppiogioco prospettandogli gravi accuse di tradimento, e così si ripeté lo schema dell’altra operazione. Fino a quel momento Martini e i suoi pensavano che dietro alla faccenda ci fossero solo i bulgari, finché in un incontro che si tenne a Sofia con l’ingegnere doppiogiochista si presentò anche un’altra persona che disse esplicitamente di essere un agente del KGB.

Dopo mesi di pedinamenti e invii di documenti contraffatti, l’operazione si concluse a Vienna con l’arresto di Francalanci. In un primo momento fu perquisito dalla polizia italiana, che non trovò nulla di sospetto. Poi, secondo il racconto di Martini, fu eseguita una seconda perquisizione da parte degli agenti del SISMI, che trovarono tra i bagagli due pennarelli colorati ben nascosti, al cui interno erano occultati due microfilm contenenti altre informazioni riservate, diverse da quelle note al SISMI: «In tutta evidenza, il commerciante aveva lavorato su più fronti».

La terza operazione raccontata da Martini ha come protagonista un’impiegata della Olivetti, Maria Antonietta Valente, che tentò di rubare e divulgare al KGB alcuni segreti militari della NATO. I segreti erano contenuti in alcuni documenti che riguardavano lo sviluppo di un sistema elettronico che doveva servire a impedire che i sovietici captassero i segnali delle comunicazioni alleate. Il sistema era sviluppato sotto il nome di “progetto Tempest”, e funzionava grazie al principio della gabbia di Faraday, quello che prevede che un dispositivo protetto da un materiale conduttore viene isolato dalle interferenze esterne.

L’articolo della Stampa, 17 luglio 1990, che racconta il caso del “progetto Tempest”. Fu sentito dai magistrati anche Carlo De Benedetti, all’epoca dirigente della Olivetti.

Il SISMI scoprì che c’era una talpa che stava tentando di passare le informazioni del progetto ai sovietici. Una parte dello sviluppo era portata avanti dalla Sixtel, un’azienda di proprietà del gruppo Olivetti, e le indagini condussero a Valente che fu messa sotto stretta sorveglianza. Si scoprì che Valente si era incontrata con l’agente sovietico Victor Dimitriev, con cui si era accordata per farsi pagare una cospicua somma di denaro (i giornali all’epoca parlavano di 225mila dollari, corrispondenti a circa 415mila euro di oggi) in cambio dei documenti della NATO. A questo scopo, Valente costituì una società di comodo nel Liechtenstein per eludere i controlli finanziari italiani, ma il 6 luglio 1990 venne arrestata in flagranza di reato a Torino.

fonte: ilpost.it

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