Livatino, il “piccolo giudice” beato, tra lotta alla mafia e umanità

Domani mattina, nella cattedrale di Agrigento, la beatificazione di Rosario Livatino, il magistrato martire della giustizia, ucciso,“in odio alla fede” dalla “stidda” il 21 settembre 1990, a meno di 38 anni, ma con già 12 di servizio. Il postulatore diocesano: in tutti i suoi gesti e parole, una grande umanità e voglia di normalità, e l’impegno a camminare sempre “sotto lo sguardo di Dio”. L’incontro col killer pentito che testimoniò al processo di beatificazione.

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Il primo magistrato beato nella storia della Chiesa era un uomo innamorato di Dio, dei suoi genitori e della giustizia, che cercava la normalità del bene e aveva fatto voto di “camminare sempre sotto lo sguardo del Signore”. Rosario Angelo Livatino, che viene beatificato domani mattina, domenica, nella cattedrale di san Gerlando ad Agrigento, in un rito che si apre alle ore 10, presieduto dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, è stato ucciso, “in odio alla fede”, da quattro killer della “stidda”, la cosca ribelle dell’agrigentino, il 21 settembre 1990, quando non aveva ancora 38 anni, ma era in magistratura già da 12.

La reliquia: la camicia azzurra del giudice macchiata di sangue

La corsa disperata di Livatino tra l’erba e i sassi della scarpata sotto il viadotto Gasena della statale che percorreva ogni giorno per andare dalla sua Canicattì al palazzo di giustizia di Agrigento, con la sua Fiesta amaranto senza scorta, rifiutata perché non voleva che altri perdessero la vita a causa sua, inseguito dai suoi aguzzini, verrà rievocata, nel tempio barocco nella città della Valle dei Templi, dalla sua camicia azzurra forata dai proiettili e intrisa di sangue. Sarà la reliquia venerata dal cardinale Semeraro, mentre il coro diocesano canterà l’inno “Sub Tutela Dei”, composto per la beatificazione, subito dopo la lettura della lettera apostolica con la quale Papa Francesco ha iscritto Rosario Livatino nell’albo dei beati, e l’indicazione della data della sua memoria liturgica.

Le ultime parole: “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”

Il postulatore monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, farà risuonare le ultime parole del giudice martire, “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”, riferite da uno dei killer, Domenico Pace, al pentito Gioacchino Schembri. Ma risuonerà anche il grido pronunciato a meno di tre anni dall’omicidio Livatino da san Giovanni Paolo II, proprio il 9 maggio, al termine dell’omelia della Messa nella Valle dei Templi, dopo aver incontrato privatamente mamma Rosalia Corbo e papà Vincenzo, i genitori di Rosario. “Non uccidere!: non può uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare  e calpestare questo diritto santissimo di Dio!” scandì in piedi, stringendo la mano a pugno e poi alzando il dito al cielo, e nel nome di Cristo disse ai responsabili “che portano sulle loro coscienze tante vittime umane”, “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.

Il messaggio dei vescovi siciliani: “Rosario, uno di noi”

In Sicilia risuonano anche le parole dei vescovi, nel messaggio scritto in occasione della beatificazione, che definiscono Livatino ”uno di noi, cresciuto in una comunissima famiglia delle nostre e in una delle nostre città, dove ha respirato il profumo della dignità e dove ha appreso il senso del dovere, il valore dell’onestà e l’audacia della responsabilità”. I pastori siciliani scrivono della “giovinezza” del martire canicattinese, della sua professione e della sua professionalità, del significato della sua beatificazione oggi e in questa terra; illustrano le tappe del cammino delle coscienze iniziato con l’assassinio del magistrato, e passato attraverso il grido di Giovanni Paolo II e la lettera “Convertitevi!” dei vescovi di Sicilia per il 25° di quell’appello e fino alla beatificazione; si soffermano sulla “eredità” di Livatino, ma non meno su quella “di Puglisi e di innumerevoli altri fratelli e sorelle, che non saranno mai elevati gli onori degli altari, ma che hanno scritto pagine indelebili di storia ecclesiale e civile, anche ai nostri giorni e anche nella nostra Sicilia!”.

In trent’anni le cose sono cambiate, ma non abbastanza

”Purtroppo – scrivono i vescovi siciliani – dobbiamo riconoscere che, al di là di alcune lodevoli iniziative più o meno circoscritte, le nostre Chiese non sono ancora all’altezza di tale eredità”. L’invito è a “ripartire, considerando che in questi trent’anni tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. Se sembra finito il tempo del grande clamore con cui la mafia agiva nelle strade e nelle piazze delle nostre città, è certo che essa ha trovato altre forme – meno appariscenti e per questo ancora più pericolose – per infiltrarsi nei vari ambiti della convivenza umana, continuando a destabilizzare gli equilibri sociali. Di fronte a tutto questo non possiamo più tacere, ma dobbiamo alzare la voce e unire alle parole i fatti: non da soli ma insieme, non con iniziative estemporanea ma con azioni sistematiche. Solo così il sangue dei martiri non sarà stato versato invano e potrà fecondare la nostra storia, rendendola, per tutti e per sempre, storia di salvezza”.

 

fonte: Vatican News

 

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