Tempo di preghiere audaci

#QuarantaGiorni
Tracce di riflessione lungo il cammino quaresimale

di Giovanni Cesare Pagazzi

Chissà quante volte in Quaresima pregheremo col Salmo 51, il Miserere. Per il Salterio fu composto da Davide, dopo aver goduto di Betsabea, una donna sposata, alla quale aveva fatto uccidere il marito, divenuto ingombrante. Consapevole della sua profonda, antica sporcizia, il re domanda perdono.

Si rivolge a Dio con una raffica di comandi: «Cancella!», «Lavami!», «Purificami!», «Aspergimi!», «Fammi sentire gioia e letizia!», «Non guardare!», «Crea!», «Rinnova!», «Non scacciarmi!», «Rendimi la gioia!», «Sostienimi!», «Liberami!», «Ricostruisci!».

Per essere uno che dovrebbe solo implorare perdono, Davide è assai ardito. Non apre la richiesta dicendo: “Scusa se, indegno, mi permetto di rivolgermi a te che sei il Santo…”.

No. Egli comincia con un imperativo: «Cancella!». Anche a motivo della sua malvagità, Davide non è nella condizione di esigere. Eppure, con incomprensibile audacia, egli “comanda”: «Lavami!». Consentire tale audacia è già un anticipo del perdono richiesto.

Altre invocazioni hanno il medesimo tocco energico, come il Veni Creator Spiritus, dove ci si rivolge allo Spirito Creatore con una batteria di imperativi: «Vieni!», «Visita!», «Riempi!», «Illumina!».

Le preghiere audaci sono sempre piaciute a Dio. Sono coraggiose e famigliari, rispettose ma risolute. Non nascono dalla paura, dall’adulazione, o da servile ossequio, ma sgorgano dalla fiera consapevolezza di essere realmente fratelli e sorelle del Primogenito dei morti, per davvero figli e figlie del Padre.

E ciò nonostante tutto (peccati compresi). Non siamo scolari di un maestro stizzoso e lunatico, o facchini d’un padrone volubile e permaloso. Ecco perché la preghiera del “figliol prodigo” fu subito azzittita dal padre: puzzava di schiavitù e paura; non erano le parole di un figlio, anche se malvagio.

Tutti gli amici di Dio hanno pregato audacemente. Insieme a Davide, ne menziono altri tre. Il primo è Abramo che intercedendo a favore dei giusti di Sodoma e Gomorra esclamò: «Forse il giudice di tutta la terra praticherà l’ingiustizia?». Il secondo è Mosè che, davanti all’eventuale rifiuto divino di perdonare Israele, intendeva rispedire al mittente tutti i privilegi riservati a lui dal Signore: “Tieniteli tu, se non perdoni il popolo!”.

Il terzo è il Papa Paolo VI che, davanti a tutta la Chiesa e al mondo, si lamentò con Dio, poiché non l’aveva ascoltato: «Tu non hai esaudito la nostra supplica».

Ci lamentiamo solo delle persone più care, quelle legate a noi da un vincolo così tenace da non essere rescisso nemmeno manifestando la delusione che ci hanno arrecato. Il lamento è l’espressione ardita di chi ritiene l’altro fedele, anche sentendo parole dure. Chi invece non crede nella saldezza di una relazione, maschera il motivo della propria amarezza, oppure maligna alle spalle. Ecco perché il credente sa anche lamentarsi con Dio di Dio.

A chi davvero mi rivolgo quando prego? A quale Dio? Al Dio che si compiace dell’audacia dei suoi figli, dei suoi fratelli, o a un prodotto della paura, a cui parlare con adulante, servile deferenza per evitare guai?

fonte: L’Osservatore Romano

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