La crisi politica paralizza Taranto: con il futuro dell’ex-Ilva in bilico, cosa resta delle speranze di rilancio e risanamento?
di Salvatore Stano
ROMA (EN24) – Taranto, la città dell’acciaio, sta attraversando uno dei momenti più critici della sua storia recente. Lo stabilimento ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, è sull’orlo del collasso, stretto tra una produzione quasi ferma, un intrico di questioni ambientali e un’instabilità politica che minaccia di far deragliare ogni tentativo di rilancio. La recente crisi amministrativa, culminata con le dimissioni del neo-sindaco Pietro Bitetti, getta un’ombra pesante sull’imminente firma dell’accordo di programma, cruciale per il destino dell’impianto.
La situazione produttiva è allarmante: nel 2024, lo stabilimento ha prodotto appena 2 milioni di tonnellate di acciaio, a fronte delle 6 milioni necessarie per raggiungere il pareggio economico. Degli otto altoforni, solo uno è attualmente operativo; gli altri sono fermi per manutenzione o, in un caso, sotto sequestro giudiziario a seguito di un incidente. Questa paralisi si traduce in perdite mensili superiori a 40 milioni di euro, un salasso che ha già richiesto interventi finanziari statali per 200 milioni di euro. Dei circa 8.000 dipendenti diretti, ben 3.500 sono in cassa integrazione, a testimonianza di una crisi che colpisce duramente l’occupazione locale.
Parallelamente, la trattativa per la cessione di Acciaierie d’Italia a Baku Steel, società azera, procede a rilento. L’offerta di un miliardo di euro è ritenuta eccessiva da parte degli acquirenti, data la vetustà degli impianti e le stringenti prescrizioni ambientali imposte. L’attuale fase di stallo, combinata con le continue perdite, mette a serio rischio la sopravvivenza stessa dell’acciaieria, alimentando il circolo vizioso di incertezza e declino.
Il Ministro per il Made in Italy, Adolfo Urso, ha delineato un piano di rilancio in due fasi. La prima prevede ingenti investimenti in manutenzione per riattivare almeno due altoforni e portare la produzione verso i 6 milioni di tonnellate annue. La seconda fase, più ambiziosa e a lungo termine (circa 12 anni), mira a una vera e propria decarbonizzazione attraverso la transizione dagli altoforni tradizionali ai forni elettrici alimentati a gas, con la necessità di una nave rigassificatrice nel porto di Taranto. Se da un lato ciò prometterebbe un minor impatto ambientale, dall’altro implicherebbe anche una riduzione della manodopera, un aspetto che genera non poca preoccupazione.

Il ministro Adolfo Urso
La questione ambientale rimane il nodo più intricato. Dopo anni di “facoltà d’uso” garantite da 18 decreti in cambio di promesse di migliorie, la recente concessione dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) provvisoria, con le sue 470 prescrizioni, rappresenta un bivio. La sua sostenibilità economica è in discussione, così come il rischio di ulteriori ricorsi da parte di comitati ambientalisti che potrebbero bloccare l’area a caldo.
In questo scenario, la politica tarantina è in pieno caos. Le dimissioni del sindaco Piero Bitetti, eletto da una coalizione di centrosinistra con una forte impronta ambientalista e critico sull’AIA e sul rigassificatore, hanno gettato nell’incertezza l’esito della riunione ministeriale del 31 luglio per la firma dell’accordo di programma. Bitetti ha lamentato la mancanza di “agibilità politica” sulla questione ex Ilva, tra la pressione dei comitati e le richieste di Uil e Confindustria di Taranto di ritirare le dimissioni per “non perdere tempo” e “salvare la fabbrica”. Senza il benestare degli enti locali, l’accordo non potrà vedere la luce, aggravando ulteriormente la situazione.
In questo clima di smarrimento, emergono anche proposte estemporanee, come l’appello a Elon Musk da parte di un’associazione di proprietari Tesla per acquisire l’acciaieria e trasformarla in una fabbrica di automobili. Seppur velleitaria, tale iniziativa è sintomatica del clima di disperazione che avvolge Taranto.
Il futuro dell’ex Ilva e della città stessa è appeso a un filo sottile. La capacità di superare le divisioni politiche, di conciliare le esigenze produttive con la tutela ambientale e di trovare soluzioni economicamente sostenibili sarà determinante per salvare un pezzo fondamentale dell’industria italiana e il destino di migliaia di famiglie.
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